Brown Sugar. Strade di polvere

«I suoi versi lo precedevano. E lui ne fu all’altezza.» — Nicola Lagioia

«La presenza di Veneziani nel mondo è una presenza discreta, talvolta rabbiosa, sempre discontinua: alla ricerca perenne di una ragione per vivere. (…) La verità leggendaria del suo procedere è lì a premiarlo di ogni sventura che potrà patire in vita. Anche essere dimenticati.» — Dario Bellezza

«I personaggi di queste poesie-racconto sono vivi, oggetto dell’amore di un poeta che vorrebbe scrutarne la profonda intimità. (…) Alla ricerca della “vena nuda”, con un linguaggio trasparente e letterario, il poeta si aggira tra i corpi delle latrine, sperando di incontrare il grande amore e ogni volta trovando facce da criminali. Ciò che gli resta in mano è un pugno di parole, quelle di questi versi, che parlano di un’assenza inquietante, della paura di chi crede che insieme alla Realtà se ne sia andata per sempre anche la Generazione.» — Renzo Paris

 

I suoi versi lo precedevano. E lui ne fu all’altezza.Ho conosciuto Antonio Veneziani nel 1998, fu una delle prime personalità del mondo letterario con cui venni a contatto quando, a venticinque anni, senza arte né parte, mi trasferii a Roma. Di Veneziani conoscevo le poesie di Brown Sugar, le prose di Fototessere del delirio urbano e poi I mignotti, l’inchiesta sulla prostituzione maschile che aveva realizzato insieme a Riccardo Reim. Era grazie a opere come quelle che, dietro la Roma mandata a memoria del secondo Novecento – la Roma di Federico Fellini e di Pier Paolo Pasolini, di Elsa Morante e di Alberto Moravia, di Amelia Rosselli e di Mario Schifano, e, dietro tutti loro, l’ombra lunga di un poeta senza tempo come Sandro Penna – si scorgeva una città diversa, una città notturna, sotterranea, sordida, viziosa, più vicina alle metropoli di William Burroughs che alle borgate del Riccetto. Gli anni Settanta erano passati sulla città cambiandole i connotati, era arrivato il glam e poi il punk, la discomusic e i travestiti, era arrivata l’eroina, era cambiata la prostituzione, il cuoio aveva sostituito il lino, il movimento di liberazione omosessuale aveva trovato (da Londra a Milano alle sponde del Tevere) la voce e il corpo di Mario Mieli, e non aveva più paura a dire pane al pane e cazzo al cazzo. Se questo cambiamento la generazione precedente, per privilegio e handicap di anagrafe, lo aveva raccontato dal di fuori, quelli come Antonio Veneziani (o come Claudio Caligari, il regista di Amore tossico) ci erano dentro fino al collo, e infatti ne sono ancora oggi tra i testimoni più fedeli.
In ossequio all’antica regola che, salvo poche eccezioni, vuole che la Città Eterna si denudi meglio davanti a chi ha aperto la prima volta gli occhi altrove, Antonio Veneziani non veniva da Roma. Era nato a Piacenza (come Fellini a Rimini, come Pasolini a Bologna, come Caligari ad Arona) ed era poi venuto nella capitale, come tutti, per perdersi nel suo incredibile caos e diventare se stesso. La prima volta che lo vidi era vestito con camicia fantasia, gilet grigio, aveva la barba bianca e il codino, in testa un basco, al collo una sciarpa bordeaux, sulle spalle un cappotto scuro sulla cui asola era appuntata una spilla a forma di scarabeo.
Era appesantito e delicato al tempo stesso. Parlava gesticolando, come se la sua storia lo costringesse a portare continuamente in scena un personaggio, l’unico modo per dire qualche verità. Mi sembrò un sopravvissuto. Provo a spiegarmi. Come ho detto, a Roma tutti arriviamo per diventare noi stessi, cioè per stendere sulla follia della città, simili ad acrobati, il nostro filo personale, e camminarci sopra sperando di non cadere. Per Pasolini le borgate. Per Penna l’eredità di un mondo addirittura precristiano. Per Veneziani quel filo fu l’eroina, e lui, quando ci conoscemmo, parlava già dall’altro capo. Non era morto di overdose. Non era impazzito. Non era rimasto senza parole. Portava ancora addosso qualche segno dell’esperienza, ma si era “risvegliato dalla malattia” già da qualche anno, e le poesie di Brown Sugar erano la cronaca, la testimonianza e insieme la trasfigurazione poetica di quell’attraversamento.
Ecco la scuola romana, pensai mentre parlava. Sin troppo frequentata (e raccontata, e sfruttata retoricamente) per riunirsi ancora sotto il tetto di una poetica comune, di quella scuola restava viva la lezione del mescolamento. Mescolarsi con tutto e tutti, non avere paura di incontrare gli altri come accesso privilegiato all’esperienza. Antonio Veneziani al mattino vedeva editori, scrittori, professori universitari, ma al pomeriggio si incontrava ancora con giovani tossici e giovani mignotti, non disdegnava la compagnia di ricche matrone romane, poteva mostrarti una sciarpa di seta che anni prima gli aveva regalato Bianca Jagger, spariva la sera ai margini della città ma poi dormiva in un bellissimo appartamento vicino Campo de’ Fiori che gli aveva prestato una vecchia conoscenza. Roma, all’epoca, non era ancora diventata una città per ricchi, gli affitti erano abbordabili, la gentrificazione (che a Roma, fondamentalmente, è sempre stato un fallimento sul piano estetico e sociale, e una truffa su quello commerciale) non si sapeva neanche bene cosa fosse, e così la vocazione al continuo mescolamento di ceti, facce e tipi umani era più semplice da assecondare.
Dopo i primi due decenni del xxi secolo, Roma affonda letteralmente dentro se stessa. A partire dal dopoguerra, è difficile ricordare un periodo di maggiore decadenza della città. Il mondo di Ranxerox (il fumetto distopico ideato da Stefano Tamburini e Tanino Liberatore) è più simile alla realtà di quanto non lo fosse quando apparve la prima volta. La gioventù abbandonata di questi anni, al netto dell’ideologia, è persino più sola di quella senza futuro del 1977. L’eroina è tornata, anzi non è mai andata via, e le poesie di Brown Sugar, che avrebbero potuto raccontare l’eterno presente di un tempo scomparso, si trovano inaspettatamente a ingaggiare un altro corpo a corpo con la contemporaneità. (Nicola Lagioia)

14,00

Descrizione

«I suoi versi lo precedevano. E lui ne fu all’altezza.» — Nicola Lagioia

«La presenza di Veneziani nel mondo è una presenza discreta, talvolta rabbiosa, sempre discontinua: alla ricerca perenne di una ragione per vivere. (…) La verità leggendaria del suo procedere è lì a premiarlo di ogni sventura che potrà patire in vita. Anche essere dimenticati.» — Dario Bellezza

«I personaggi di queste poesie-racconto sono vivi, oggetto dell’amore di un poeta che vorrebbe scrutarne la profonda intimità. (…) Alla ricerca della “vena nuda”, con un linguaggio trasparente e letterario, il poeta si aggira tra i corpi delle latrine, sperando di incontrare il grande amore e ogni volta trovando facce da criminali. Ciò che gli resta in mano è un pugno di parole, quelle di questi versi, che parlano di un’assenza inquietante, della paura di chi crede che insieme alla Realtà se ne sia andata per sempre anche la Generazione.» — Renzo Paris

 

I suoi versi lo precedevano. E lui ne fu all’altezza.Ho conosciuto Antonio Veneziani nel 1998, fu una delle prime personalità del mondo letterario con cui venni a contatto quando, a venticinque anni, senza arte né parte, mi trasferii a Roma. Di Veneziani conoscevo le poesie di Brown Sugar, le prose di Fototessere del delirio urbano e poi I mignotti, l’inchiesta sulla prostituzione maschile che aveva realizzato insieme a Riccardo Reim. Era grazie a opere come quelle che, dietro la Roma mandata a memoria del secondo Novecento – la Roma di Federico Fellini e di Pier Paolo Pasolini, di Elsa Morante e di Alberto Moravia, di Amelia Rosselli e di Mario Schifano, e, dietro tutti loro, l’ombra lunga di un poeta senza tempo come Sandro Penna – si scorgeva una città diversa, una città notturna, sotterranea, sordida, viziosa, più vicina alle metropoli di William Burroughs che alle borgate del Riccetto. Gli anni Settanta erano passati sulla città cambiandole i connotati, era arrivato il glam e poi il punk, la discomusic e i travestiti, era arrivata l’eroina, era cambiata la prostituzione, il cuoio aveva sostituito il lino, il movimento di liberazione omosessuale aveva trovato (da Londra a Milano alle sponde del Tevere) la voce e il corpo di Mario Mieli, e non aveva più paura a dire pane al pane e cazzo al cazzo. Se questo cambiamento la generazione precedente, per privilegio e handicap di anagrafe, lo aveva raccontato dal di fuori, quelli come Antonio Veneziani (o come Claudio Caligari, il regista di Amore tossico) ci erano dentro fino al collo, e infatti ne sono ancora oggi tra i testimoni più fedeli.
In ossequio all’antica regola che, salvo poche eccezioni, vuole che la Città Eterna si denudi meglio davanti a chi ha aperto la prima volta gli occhi altrove, Antonio Veneziani non veniva da Roma. Era nato a Piacenza (come Fellini a Rimini, come Pasolini a Bologna, come Caligari ad Arona) ed era poi venuto nella capitale, come tutti, per perdersi nel suo incredibile caos e diventare se stesso. La prima volta che lo vidi era vestito con camicia fantasia, gilet grigio, aveva la barba bianca e il codino, in testa un basco, al collo una sciarpa bordeaux, sulle spalle un cappotto scuro sulla cui asola era appuntata una spilla a forma di scarabeo.
Era appesantito e delicato al tempo stesso. Parlava gesticolando, come se la sua storia lo costringesse a portare continuamente in scena un personaggio, l’unico modo per dire qualche verità. Mi sembrò un sopravvissuto. Provo a spiegarmi. Come ho detto, a Roma tutti arriviamo per diventare noi stessi, cioè per stendere sulla follia della città, simili ad acrobati, il nostro filo personale, e camminarci sopra sperando di non cadere. Per Pasolini le borgate. Per Penna l’eredità di un mondo addirittura precristiano. Per Veneziani quel filo fu l’eroina, e lui, quando ci conoscemmo, parlava già dall’altro capo. Non era morto di overdose. Non era impazzito. Non era rimasto senza parole. Portava ancora addosso qualche segno dell’esperienza, ma si era “risvegliato dalla malattia” già da qualche anno, e le poesie di Brown Sugar erano la cronaca, la testimonianza e insieme la trasfigurazione poetica di quell’attraversamento.
Ecco la scuola romana, pensai mentre parlava. Sin troppo frequentata (e raccontata, e sfruttata retoricamente) per riunirsi ancora sotto il tetto di una poetica comune, di quella scuola restava viva la lezione del mescolamento. Mescolarsi con tutto e tutti, non avere paura di incontrare gli altri come accesso privilegiato all’esperienza. Antonio Veneziani al mattino vedeva editori, scrittori, professori universitari, ma al pomeriggio si incontrava ancora con giovani tossici e giovani mignotti, non disdegnava la compagnia di ricche matrone romane, poteva mostrarti una sciarpa di seta che anni prima gli aveva regalato Bianca Jagger, spariva la sera ai margini della città ma poi dormiva in un bellissimo appartamento vicino Campo de’ Fiori che gli aveva prestato una vecchia conoscenza. Roma, all’epoca, non era ancora diventata una città per ricchi, gli affitti erano abbordabili, la gentrificazione (che a Roma, fondamentalmente, è sempre stato un fallimento sul piano estetico e sociale, e una truffa su quello commerciale) non si sapeva neanche bene cosa fosse, e così la vocazione al continuo mescolamento di ceti, facce e tipi umani era più semplice da assecondare.
Dopo i primi due decenni del xxi secolo, Roma affonda letteralmente dentro se stessa. A partire dal dopoguerra, è difficile ricordare un periodo di maggiore decadenza della città. Il mondo di Ranxerox (il fumetto distopico ideato da Stefano Tamburini e Tanino Liberatore) è più simile alla realtà di quanto non lo fosse quando apparve la prima volta. La gioventù abbandonata di questi anni, al netto dell’ideologia, è persino più sola di quella senza futuro del 1977. L’eroina è tornata, anzi non è mai andata via, e le poesie di Brown Sugar, che avrebbero potuto raccontare l’eterno presente di un tempo scomparso, si trovano inaspettatamente a ingaggiare un altro corpo a corpo con la contemporaneità. (Nicola Lagioia)

Informazioni aggiuntive

autore

Antonio Veneziani

editore

Hacca Edizioni

anno

2019

Recensioni

Ancora non ci sono recensioni.

Recensisci per primo “Brown Sugar. Strade di polvere”